LA BATTAGLIA DI CUSTOZA

Il 24 giugno 1866, a Custoza, l’esercito italiano guidato dal re Vittorio Emanuele II e da Alfonso Lamarmora fu sconfitto dagli austriaci dell’arciduca Alberto d’Asburgo. Fu una disfatta senza conseguenze pratiche: grazie alla vittoria della Germania di Bismarck, nostra alleata, la terza guerra d’indipendenza si concluse con l’annessione del Veneto al regno d’Italia. Tuttavia scatenò feroci polemiche politiche, e divenne il simbolo di quella tipica inettitudine italiana che avrebbe provocato molti altri disastri militari: Lissa, Adua, Caporetto, le campagne di Grecia e Albania

Le alture di Custoza che diedero poi il nome alla battaglia. Il Generale BRIGNONE, eseguendo gli ordini di LA MARMORA, aveva occupato le alture di Monte Torre e Monte Croce con le truppe della 3a divisione (“granatieri di Sardegna” e di “Lombardia”). Assalito dalle brigate WECKBECKER e BÓCK, le respinse dopo un sanguinoso combattimento, durante il quale fu ferito, alla Cavalchina, pure il principe AMEDEO di Savoia che combatteva alla testa della brigata “granatieri di Lombardia” di cui era comandante; ma più tardi, attaccata da truppe fresche nemiche (“brigata Scordier”), nonostante le prove di valore dei suoi soldati, dovette sgombrare una buona parte delle posizioni.
Ma M. Torre e M. Croce non dovevano restare agli Austriaci: il 1° e il 3° battaglione del 64° fanteria della divisione “Cugia”, guidati dal colonnello FERRAR, contrattaccarono il nemico ricacciandolo indietro e conquistarono le posizioni, dove vi erano un migliaio circa di granatieri e bersaglieri della 3a divisione.
A completare questa breve riscossa giunse il generale GOVONE con la 9a divisione (“brigata Pistoia” e “Alpi” e 34° batt. bersaglieri). Sostenuto dai granatieri superstiti del “Frignone”, da M. Torre dove si era portato, assalì Custoza, tenuta dagli Austriaci, e se ne impadronì verso le ore 11, quindi scacciò la brigata “Scordier” dal Belvedere e da alcune posizioni a nord di Custoza.
Contro le posizioni conquistate dal CUGIA e dal GOVONE furono sferrati numerosi contrattacchi nemici. Invano i due generali chiesero rinforzi al DELLA ROCCA, comandante del III Corpo (quello di riserva), invano le divisioni del principe UMBERTO e del BIXIO, inoperose a Villafranca, chiesero insistentemente di andare in loro aiuto; l’8a e la 9a divisione rimasero da sole a combattere, demoralizzate e perfino affamate, contro il nemico fresco e più numeroso, per oltre sei ore, dalle 11 alle 5 e mezza pomeridiane.

Verso mezzogiorno gli Austriaci erano riusciti a conquistare il Belvedere, ma furono ben presto ricacciati dalle truppe del GOVONE. Verso le 16 entrarono in azione le brigate “Toply” e “Welserheinb”, le quali nonostante la valorosa resistenza della divisione Govone e dei resti della 3a del tenente colonnello BONI, espugnarono la Bagolina, M. Molimenti e M. Arabica. Alle 16,30 la brigata “Móring” attaccò Custoza e il reggimento Maroicic M. Croce.
Erano gli ultimi assalti, “era – scrive il Pollio – per gl’Italiani, una lotta senza probabilità di riuscita, perché erano molto inferiori in numero, perché avevano truppe stanchissime contro truppe fresche, perché la loro artiglieria era troppo inferiore all’artiglieria avversaria per quantità, per le posizioni occupate e per disponibilità di munizioni. Così cadde Custoza, nelle cui vie si combatté a corpo a corpo ostinatamente; così cadde M. Croce e alle 17,30 le truppe italiane iniziarono la ritirata su Valeggio. Anche Villafranca fu sgombrata: la ritirata fu protetta dalla divisione Bixio e dalla cavalleria di linea; la cavalleria austriaca la assalì, ma fu ricacciata”
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Prima che spuntasse l’alba del giorno dopo, tutto l’esercito italiano, sebbene Vittorio Emanuele avesse ordinato che Valeggio fosse tenuta ad ogni costo, aveva ripassato il Mincio.

Il Re attraversò il Mincio al ponte di barche di Pozzolo, poi per Valeggio prese la via di Villafranca. Udì i cannoni da quella parte, pensò che fossero le sue batterie, mandò a prendere informazioni; ma non le ebbe. Salì sulla collina di Monte Torre, ma appena comparve sul cucuzzolo incominciarono a piovere granate austriache, così capì subito di chi erano. E sotto le granate comparve pure il Comando Supremo con La Marmora, non infuriato ma ancora pieno di speranze, anche se non aveva idea di cosa fare; il Re che era inquieto per l’attacco alle posizioni di Custoza, ora scopriva che La Marmora era in giro per il campo, di modo che nessuno poteva comunicare con lui. Fra lui e il re sorse un battibecco. Alla fine si decise di andare a raccogliere gli sbandati che scendevano da Monte Torre e Monte Croce. Ma non è che La Marmora si era reso conto ancora della situazione.

Anche il Re sul ponte Tione andò a dare man forte per riunire gli sbandati della divisione Brignone. Oltre che il triste spettacolo, pochi soldati ubbidivano perché pochi lo conoscevano, né volevano prendere ordini da lui in un momento così pericoloso; fin quando l’ufficiale di scorta lo convinse a ritirarsi dal pericolo, fra l’altro comunicandogli che suo figlio Amedeo era stato ferito. “Meglio ferito o morto piuttosto che prigioniero” commentò e prese la via per Valeggio, per incontrarsi nuovamente con La Marmora, ma trovò una tale confusione che proseguì per Cerlongo. E a sua volta a Valeggio arrivò La Marmora ma invece di andare al Quartier Generale di Cerlongo ad incontrare il Re prosegui per Goito in mezzo al caos.

Fu a quel punto che La Marmora finalmente resosi conto, impressionato dalla rovina, decise di ritirarsi e andava dicendo “che disfatta, che catastrofe, peggio del 1849!”, “Le truppe non tengono!”, quando invece -lo riconobbero gli stessi austriaci- gli italiani avevano combattuto bene, che sarebbe bastato in quelle stesse ore un contrattacco per essere da loro sconfitti.
Purtroppo sia La MARMORA che CIALDINI (che non si era ancora nemmeno mosso dal Po) avevano la convinzione che la situazione fosse molto grave ed agirono sotto tale influsso. Uno aveva deciso di ritirarsi, e l’altro intimorito, invece di attaccare non solo non si mosse, ma iniziò a ritirarsi anche lui verso Modena.
Solo allora il re maledisse i suoi errori: quello di aver fatto due eserciti, e che ora si trovava a non comandarne nemmeno uno. Né a vederne uno di quelli a cui aveva affidato il comando!

“Questa la battaglia di Custoza. Da parte degli Italiani – scrive il Pollio – non vi fu nessun piano d’azione (ogni comandante dei vari reparti, abbandonato a se stesso, agì come poté, senza potersi preoccupare di quanto avveniva altrove), quindi un’azione slegata in sommo grado, una successione di sforzi, sterili di risultati, perché non coordinati e non appagati, episodi di strenuo valore, anche azioni tattiche in più larga scala ben pensate e ben riuscite; con grande logoramento di forze e di energie in alcuni riparti; intere divisioni rimaste con le armi al piede tutta la giornata o quasi. Risultato finale: la sconfitta”.

“Del comando supremo le colpe maggiori, è che non funzionò né prima né durante la battaglia: trascurò infatti il servizio d’informazioni e l’esplorazione del terreno, in modo da render possibile al nemico la sorpresa; non precisò l’ora in cui i Corpi avrebbero iniziato l’avanzata il mattino del 24; non curò l’ordine di marcia facendo sì che la cavalleria si trovasse dietro la fanteria; i carriaggi si frammischiarono ai combattenti ostacolandone i movimenti; dimenticò a Piadena cinquantaquattro cannoni, che, portati sul campo, avrebbero data la superiorità sul nemico; ed infine, per non dire altro, non comunicò ai comandi di corpo d’armata e di divisione il luogo del Quartier generale”.

“LA MARMORA, senza stato maggiore, né ufficiali d’ordinanza, andò lui errando per il vasto campo, impartendo comandi contraddittori, secondo le parziali e immediate necessità, ora assumendo ufficio di divisionario, ora di brigadiere, ora di colonnello; ma del tutto ignaro dell’insieme del combattimento. I capi di corpo, disorientati e privi d’iniziativa, non sapevano dove cercare il comando generale, con un La Marmora sempre vagante in mezzo all’azione. Il re stesso vanamente e a lungo ne fece ricerca in ogni dove” (Gori).

“Si aggiunga che per l’insufficienza del comando supremo un intero corpo d’armata, il II, rimase inoperoso e si tengano presenti, se si vogliono ricordare le principali cause dell’insuccesso, l’inesplicabile condotta del DELLA ROCCA che, mandando in aiuto a Govone e a Cugia le due divisioni di Villafranca, avrebbe potuto conseguire la vittoria; gli errori commessi dal DURANDO e dal CERALE al principio dell’azione; lo sbaglio del VILLAHERMOSA quando la divisione “Sirtori” rimase senza avanguardia e la “Cerale” n’ebbe invece due. Inoltre – “nota bene il Silva” – “le nostre divisioni operarono così slegatamente e alla spicciolata da trovarsi quasi sempre di fronte a nemici superiori di numero; quantunque, in complesso l’esercito italiano del Mincio fosse di molto superiore a quello austriaco.
“Nel settore di sinistra 12.000 italiani agirono in modo sparso contro 32.000 austriaci; nel settore di destra intorno a Custoza tra la mattina e la sera 24.000 Italiani si trovarono di fronte i 48.000 Austriaci, nel pomeriggio, la lotta si svolse tra 30.000 Austriaci e 15.000 Italíani, mentre altri 20.000 si trovavano inoperosi a poca distanza”.

I morti, secondo alcuni fonti furono circa 8000. Bisogna ricordare che figuravano molti cognomi italiani fra i morti austriaci, questo perché buona parte dei soldati provenivano dal popoloso Veneto. Quindi, fu uno sbudellamento “fra italiani e italiani”. Come del resto fu poi anche la lotta navale a Lissa, che narreremo più avanti.

“La giornata del 24, non ingloriosa del resto per le armi italiane, costituì, più che una sconfitta, un insuccesso che era facilmente riparabile. Lo stesso arciduca non si accorse neppure di aver vinto e non osò inseguirci. Superiori alle nostre erano state le sue perdite; infatti, aveva avuto, tra morti e feriti, 5154 uomini fuori combattimento, gli italiani 3281. Furono i nostri capi che esagerarono la gravità degli avvenimenti. Il Re, in un telegramma al Cialdini, spedito alle 16,45, così esponeva la situazione: “Da questa mattina siamo attaccati in tutti i punti. Battaglia accanita. Abbiamo tutto l’esercito contro di noi. Passi immediatamente il Po. Non so dirle esito. Battaglia continua ancora; essa è dubbia; molte perdite. Divisione granatieri presa la fuga. Mio figlio Amedeo ferito palla in pancia, le iscriverò più tardi se potrò”.

In un altro, trasmesso alle 22,30, diceva: “Combattimento finito con il giorno. Perdite immense. Molti generali feriti. Nemico fatto molti prigionieri. Divisione Sirtori, divisione granatieri principe Amedeo, divisione Cerale che è ferito; non tennero. Quelle della Rocca fecero tutte buona resistenza. Dato ordine di ripassare il Mincio. Guarderò tenere Volta e riportare truppe, riprendere offensiva, ma mi mancano quelle tre divisioni che manderò organizzare altro luogo”.

Abbiamo detto che l’insuccesso era facilmente riparabile. Occorreva tenere Valeggio e dopo un giorno di riposo ricominciar l’avanzata con l’esercito del Mincio, ancora in buone condizioni, e con quello del Basso Po. Occorreva insomma fare quel che Vittorio Emanuele aveva pensato telegrafando al Cialdini di passare immediatamente il Po e informandolo, come si è visto, che avrebbe ripreso l’offensiva, che l’Arciduca Alberto prevedeva per il giorno dopo, come risulta dal suo ordine scritto del 24.
Invece non fu così. LA MARMORA, il 25 giugno, decise che l’esercito del Mincio si ritirasse “per prendere una forte posizione difensiva sulla linea Cremona-Pizzighettone Piacenza” e, scrivendo a Garibaldi, il quale era già giunto a Monte Suello, gli raccomandò di coprire le città che, come Brescia, sarebbero rimaste esposte al nemico.
Il 27 nondimeno La Marmora stabiliva di limitare il movimento di ritirata alla linea dell’Oglio. Dal canto suo il Cialdini non solo non ubbidì all’ordine del re, telegrafatogli il 24, “di passare il Po”, ma allarmato dalle notizie ricevute dal Mincio, rinunziò al primitivo piano e dopo un vago consiglio di guerra, iniziò la ritirata del suo Corpo verso Modena. Né volle sospenderla quando il 26, da Cerlungo, La Marmora gli telegrafò: “Capisco che dopo giornata del 24 rinunziate al vostro progetto su Rovigo, ma vi prego caldamente di non abbandonare il Po, anzi continuare dimostrazioni per passarlo onde noi possiamo prendere una migliore posizione”.

Erano questi i funesti effetti della mancanza di un comando unico. Il 26 di fronte all’atteggiamento del collega LA MARMORA dichiarò che erano troppi a comandare e presentò al re le dimissioni, consigliando che si desse al Cialdini il comando supremo. Seguirono due giorni di trattative, durante i quali l’esercito italiano rimase quasi senza comando, a causa del CIALDINI che pretendeva l’allontanamento del re dal campo. VITTORIO EMANUELE non voleva fare tanto sacrificio e LA MARMORA insisteva nelle sue dimissioni.

Più tardi nella sua prima relazione del 1868, La Marmora diede la colpa di quanto era accaduto tutta al Re: “Ero stato nominato Capo di Stato maggiore, in tale carica io potevo proporre, suggerire, consigliare, invece mi si vietava di agire di proprio impulso, di emanare ordini chiari, precisi, assoluti, com’è nella mia natura…e mi si costringeva sovente di tacere, cedere, transigere”.
In realtà La Marmora agì sempre in piena libertà. E anche la ritirata fu decisa da lui, e non imposta dal Re, che addirittura ubbidì perfino ai suoi ordini, mentre La Marmora non ubbidì a quelli del Re. Inoltre resta il telegramma inviato a Cialdini giustificando le sue dimissioni “…Perché siamo troppi a comandare. Propongo che prendiate Voi il comando con ampia facoltà di far tutte le nomine che credete”. Questo era il colmo! fa lui il capo e nello stesso tempo il sovrano.
Insomma La Marmora si azzardava pure ad esautorare il Re. Ma il Re nel frattempo aveva telegrafato a Cialdini per un incontro e per fare il giorno 27 il punto sulla situazione. E Cialdini con molta disinvoltura (rivincita non trattenuta) si affrettò con una punta di perfidia e di rivalsa, a svelare a La Marmora l’invito regio. Questo era il clima di collaborazione!

Seguirono dopo la disfatta, tante polemiche e reciproci rimproveri; chi diceva che La Marmora “ormai non godeva più la fiducia nell’esercito” (il 28 VINCENZO RICASOLI, colonnello di Stato Maggiore, scrivendo al fratello BETTINO a Firenze) che “bisognava dare il comando a Cialdini per risollevare il morale delle truppe”.Ma Cialdini fece sapere che non accettava l’incarico finché il Re non abbandonava l’armata; e le stesse condizioni chiese poi La Marmora quando il Re dopo aver prima accettato le dimissioni, poi respinte, gli ripropose di guidare l’esercito. Promettendogli però di “…lasciar fare e di astenersi da ogni atto che possa disturbare, purché si salvino le convenienze verso di lui davanti all’esercito ed alla nazione, perché quando un re di Prussia ha il comando supremo dell’esercito, il Re d’Italia non può essere da meno”.

La sera del 29 giugno a Parma la crisi del comando fu risolta. LA MARMORA dopo aver accettato di riprendere il Comando, conveniva con il Cialdini nell’idea di sferrare l’offensiva il 5 luglio partendo dall’Oglio, mentre CIALDINI contemporaneamente avrebbe dovuto attaccare Borgoforte. Ma La Marmora nella notte tra il 2 e il 3, senza avvertire Cialdini, tornò a fare il “La Marmora”. Agendo da solo e senza informarlo fece fare una ricognizione in forze oltre l’Oglio.