INTRODUZIONE
C’è un tempo nella vita in cui s’impara soltanto. Poi viene il momento in cui si dovrebbe mettere in pratica ciò che si è imparato, e forgiato sul nostro personale talento, tanto o poco che sia. Infine, scorre nella clessidra quell’ultimo scampolo di spazio in cui si vorrebbe a un certo punto insegnare qualcosa di sé agli altri.
Errol Morris, l’intervistatore_regista di The Fog of War (Quella nebbia di guerra), una videointervista realizzata negli Stati Uniti nel 2003 e premiata con l’Oscar quest’anno per la categoria dei documentari, ha saputo cogliere quel terzo tempo della vita di Robert McNamara (che oggi ha 88 anni), segretario americano alla Difesa durante le presidenze Kennedy e Johnson, che ha accettato di raccontarsi attraverso undici lezioni di vita. .
Ha qualcosa d’importante da insegnarci McNamara? Molto, ma senza dimenticare che sta parlando uno dei massimi esperti di strategie politiche di guerra, uno che si è messo al servizio della sua nazione come analista di missioni da combattimento fin da ragazzo, quando fu inviato su quell’isoletta sperduta nel Pacifico, a Guam, da cui decollavano i B_29 che in una sola notte, nel marzo del 1945, straziarono fra le fiamme centomila civili giapponesi a Tokyo (il 6 e il 9 agosto del 1945, poi, gli americani sganciano le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki). Lui, a quell’epoca, stendeva solo i rapporti sulle missioni, analizzava successi e perdite, organizzava le statistiche. Capirete in seguito quali conseguenze possa comportare un lavoro apparentemente “semplice” come questo…
The Fog of war. 11 lezioni di Robert McNamara, Segretario alla Difesa degli USA negli anni 60 e 70 con i Presidenti Kennedy e Jhonson su: Seconda Guerra Mondiale, Guerra Fredda, Guerra in Vietnam
Ogni comandante militare che sia onesto con se stesso o verso il suo interlocutore, inizia a dire McNamara, ammetterà di aver esagerato nell’uso della forza. Ha fatto uccidere persone, e anche soldati delle sue truppe o di quelle avversarie, senza che fosse strettamente necessario. Perché? Errori di valutazione….
“Centinaia o migliaia o decine di migliaia, forse anche centinaia di migliaia di persone uccise – spiega McNamara. Tuttavia, non ha distrutto intere nazioni”.
Si pensa che non si commetta mai due volte lo stesso errore. E’ sottinteso, allora, che s’impara dai propri stessi errori. Può essere. “Può essere che commettiamo due o tre volte lo stesso sbaglio, ma non quattro o cinque. Questo non dovrà più accadere nell’era del nucleare. Lì fai un solo errore e distruggerai una nazione”.
In alcuni uffici del Pentagono c’è un piccolo calendario d’argento dove sono incise alcune date dell’ottobre del 1962. Cosa vuol dire?, chiede Morris a McNamara. “E’ un dono del presidente John. F. Kennedy. Vi sono segnati i giorni che vanno dal 16 al 27 e, infine, quello del 28 ottobre. Fissavamo letteralmente quelle date. Il 28 è il giorno in cui avremmo abbassato la canna del fucile e saremmo entrati in una guerra nucleare” (crisi dei missili a Cuba).
Nella mia vita, continua l’ex segretario americano alla Difesa, ho preso parte alla guerra: tre anni nell’Air Force nella seconda guerra mondiale e per sette anni come segretario alla Difesa durante la guerra in Vietnam. Poi ho lavorato per tredici anni alla Banca Mondiale. Se mi guardo indietro alla mia età, posso tirare alcune conclusioni sulle mie azioni (aveva 85 anni quando Errol Morris lo intervistò per realizzare questo documentario). “Il mio compito è stato di capire cosa stesse succedendo”.
La figura di McNamara è stata sempre giudicata in maniera molto contrastante. Walter Lippmann, giornalista del New York Herald Tribune, lo considerava non solo il migliore segretario alla Difesa che gli Stati Uniti avessero mai avuto, ma anche quello che avesse esercitato più di chiunque altro un controllo civile sulle operazioni militari. I suoi detrattori, invece, lo definivano un con_man (imbroglione), nonché un arrogante dittatore.
All’epoca in cui McNamara era segretario alla Difesa, il dieci per cento del pil americano era destinato al Pentagono. Più o meno la metà di ogni dollaro versato al fisco.
Lezione numero 1: Capisci il tuo nemico
L’Urss portò a Cuba i missili (1962). Novanta milioni di americani che potevano essere uccisi. La Cia disse che venti testate atomiche erano posizionate sulla nave russa Poltava. Mobilitammo 180mila soldati e per il primo giorno d’attacco avevamo previsto 1.080 voli dei nostri bombardieri.
16 ottobre 1962
J.F. Kennedy _ Cosa dobbiamo fare nelle prossime ventiquattro ore?
McNamara _ Signor Presidente, dobbiamo fare due cose. Primo, stilare un piano d’attacco.
Secondo, dobbiamo considerarne le conseguenze. Io non saprei dire in che
genere di mondo vivremo dopo che avremo colpito Cuba. A che punto ci
dovremmo fermare? Non conosco la risposta a questa domanda.
J.F. Kennedy _ Le opportunità di sferrare questo attacco aumentano man mano che il suo discorso va nella direzione del pericolo che stanno correndo gli Stati Uniti.
Il presidente Kennedy, commenta McNamara, stava cercando di tenersi fuori dall’entrare in guerra. E io stavo cercando di aiutarlo a non entrarvi. Il generale LeMay, invece (ero sotto il suo comando durante la seconda guerra mondiale), incitava “Andiamo a distruggere Cuba” (LeMay fu comandante dell’US Air Force dal 1948 al 1957).
In quella critica situazione, il 27 ottobre ricevemmo due messaggi di Khrushchev (premier russo dal 1958 al 1964). Uno arrivò nella notte del venerdì e sembrava che fosse stato dettato da un uomo ubriaco o disperato. Diceva: “Se ci garantite di non invadere Cuba, porteremo via i missili”. Prima che avessimo il tempo di rispondere arrivò il secondo messaggio. Inequivocabilmente molto più duro. Diceva: “Se ci attaccate, scaricheremo su di voi armi di distruzione di massa”. Perciò, che fare? _ racconta McNamara _. Avevamo un messaggio più morbido e uno autoritario. Vicino a Kennedy c’era Tommy Thompson, ex ambasciatore americano a Mosca. Lui e sua moglie Jane avevano conosciuto molto bene i coniugi Khrushchev.
Thompson _ Signor Presidente, risponda al messaggio soft.
Kennedy _ Non lo possiamo fare. Non ci porterebbe da nessuna parte.
Thompson _ Lei si sbaglia.
Ci vuole fegato per dire una cosa del genere, pensò McNamara.
Kennedy _ Non riusciremo a far togliere quei missili da Cuba con un negoziato.
Thompson _ Non sono d’accordo. C’è ancora una possibilità.
Kennedy _ Cosa gli farà cambiare idea?
Thompson _ Secondo me, per Khrushchev è più importante poter dire ai russi “Ho salvato
Cuba, io ho fermato l’invasione”.
Secondo Thompson , quindi, Khrushchev aveva un solo chiodo fisso: dire ai russi che Kennedy voleva distruggere Castro e che lui l’aveva fermato. Thompson aveva ragione.
“E’ ciò che io chiamo empatia _ chiarisce McNamara _. Noi dobbiamo provare a metterci nella pelle degli altri e guardarci con i loro occhi. Solo così potremo capire cos’hanno in testa e quali saranno le loro prossime azioni”.
I consiglieri di Khrushchev decretarono: “Non ci può essere alcun accordo se non riducete la pressione su di noi quando ci chiedete di ridurre la pressione su di voi”.
“E’ vero, avevamo cercato d’invadere Cuba _ continua McNamara _, con la Baia dei Porci (aprile 1961). Quell’impresa li influenzò, non c’è dubbio. I cubani e i russi sapevano una cosa che io, in un certo senso, non sapevo: noi avevamo cercato di assassinare Castro sotto Eisenhower (‘53_’61), sotto Kennedy e sotto Johnson (‘63_’69). Oltre a ciò, le voci americane più autorevoli erano a favore dell’invasione di Cuba”.
Nel primo dispaccio Khrushchev voleva dire: Non dobbiamo tirare la corda che avete annodato per fare la guerra, perché più uno di noi tira, più il nodo si stringe. E poi sarà necessario tagliarlo di netto. Non devo essere io a spiegare a voi ciò che questo significa. Ho combattuto in due guerre e so che la guerra finisce quando rade al suolo città e villaggi, seminando morte e distruzione ovunque. E’ questa la logica della guerra. Se le persone non mostrano giudizio, si comportano come talpe e finiscono per annientarsi reciprocamente.
Lezione numero 2: La razionalità non basta
Alla fine avemmo un colpo di fortuna, continua il suo racconto McNamara. Fu la fortuna a farci evitare un conflitto nucleare, perché eravamo davvero molto vicini a una guerra atomica. Erano individui razionali Kennedy, Khrushchev e Castro. Così razionali, eppure così prossimi a distruggere totalmente i loro popoli. E questo rischio esiste anche oggi. La lezione più importante della crisi dei missili a Cuba è questa: la combinazione impalpabile che intercorre fra la debolezza umana e le armi nucleari che distruggeranno le nazioni. Oggi ci sono 7.500 testate nucleari, di cui 2.500 sono pronte a partire in quindici minuti. Può un solo essere umano prendere una simile decisione?
McNamara: “Verso la fine del gennaio 1992, a L’Avana, si tenne un meeting presieduto da Fidel Castro. In quell’occasione venni a sapere che 162 testate nucleari, incluse 90 ogive tattiche, erano pronte a Cuba durante la crisi dei missili. Non potevo crederci. Castro si arrabbiò con me quando gli dissi: “Signor Presidente, metta fine a questo convegno. La notizia è del tutto nuova per me. E non sono certo nemmeno che la traduzione sia corretta. Signor presidente, devo farle tre domande. Primo: Lei sapeva dove si trovassero le testate nucleari? Secondo: Se sì, in caso di attacco americano, avreste consigliato a Khrushchev di usarle? Terzo: Se lui le avesse utilizzate, che cosa ne sarebbe stato di Cuba?”. Castro rispose: “Primo, sapevo dove fossero. Secondo, non solo avrei consigliato a Khrushchev di usarle, io ho detto a Khrushchev di usarle! Terzo, cosa ne sarebbe stato di Cuba? Sarebbe stata totalmente distrutta”.
Castro _ Mister McNamara, se lei e il presidente Kennedy vi foste trovati nella stessa
situazione, avreste fatto lo stesso.
McNamara _ Signor Presidente, spero in Dio di no. Farci cadere il soffitto del tempio in testa?
Mio Dio! Noi avremmo tenuto i missili fuori dalla guerra. E avremmo vinto.
Castro _ Signore, noi avremmo vinto. Non pretendo che sia lei a dirlo, ma avremmo vinto noi.
E allora LeMay esclamò: “Vinto? Me se vi avremmo invasi ed eliminati!”.
LeMay, all’epoca, aveva creduto che, in definitiva, avremmo usato le armi nucleari.
Allora avevamo un vantaggio strategico di 17 a 1 sull’Urss in campo nucleare. Avevamo fatto dieci volte più test atomici di loro. Perciò, eravamo certi di potere mantenere quel vantaggio, anche limitando l’uso dei test. I capi delle forze armate, però, si opponevano. “I russi ci faranno qualche scherzo”, dicevano. Io dissi: “Quale scherzo ci potrebbero fare?” E loro: “Andranno a fare dei test sulla Luna”. Ma siete fuori di testa?, dissi: “E’ assurdo”.
Nei miei sette anni alla Difesa fummo a un soffio dal trovarci in un conflitto nucleare contro l’Urss in tre occasioni: 24 ore al giorno; 365 giorni all’anno; e 365 giorni moltiplicati per i sette anni in cui fui segretario alla Difesa. Guerra fredda? Accidenti, quella era una guerra bollente!
Durante l’amministrazione Kennedy preparammo la bomba da 100 megatone (unità di misura di potenza nucleare esplosiva). Penso che la stirpe umana dovrebbe pensare di più alle morti provocate da un conflitto. E’ questo che vogliamo per il XXI secolo?
L’11 novembre del 1918, avevo due anni, San Francisco (città natale di McNamara) era in preda alla gioia. Potete non credere che io possa avere un ricordo simile di quell’età, ma è vero. Ricordo la folla che si riversava nelle strade, la gente di abbracciava, si baciava. Era finita la prima guerra mondiale. Avevamo vinto. Il sogno di Woodrow Wilson (presidente americano dal 1913 al 1921) era che il mondo non conoscesse mai più la guerra. Che non ci fossero mai più conflitti fra grandi potenze. Mi ricordo anche che non mi era permesso uscire in strada a giocare senza indossare prima la maschera. C’era l’asiatica, per colpa della quale morirono da 600mila a un milione di persone nel mondo.
In prima elementare nella mia classe c’era una maestra eccezionale. Ogni mese ci sottoponeva a una prova. In base ai risultati di ciascuno, la maestra ci faceva sedere dal primo all’ultimo banco, in file verticali. L’alunno col punteggio migliore sedeva nel primo banco a sinistra. Io m’impegnai molto per conquistare quel primo banco. Oggi, la maggior parte delle scolaresche è formata da bianchi, caucasici, wasp (protestanti d’origine anglosassone), e così via. La mia competizione per il primo banco, allora, avveniva con cinesi, ebrei, giapponesi. Di sabato e domenica i miei compagni frequentavano le loro scuole etniche, dove imparavano la loro lingua e le loro tradizioni. Il lunedì tornavano a scuola determinati a battere quel dannato di un irlandese (McNamara parla di se stesso). Ma non ci sono riusciti troppo frequentemente.
Un parlamentare del Congresso americano la definisce “Ho tutte le risposte McNamara”, lo stuzzica Errol Morris durante l’intervista. Poi domanda: “Ma lei dà sempre lezioni a tutti?”. “Non so quante cose non so _ risponde l’ex segretario alla Difesa _ . Io ho sempre dovuto preparare molto a lungo le discussioni in sede di Congresso. Avrò impiegato cento o centoventi ore ogni volta che dovevo intervenire al Congresso. Ogni ora d’intervento ne richiede tre o quattro di studio”.
“Cosa può dire _ insiste Morris _ a chi la considera arrogante, a chi sostiene che lei non ammetterebbe mai un solo errore? Lei ha mai sbagliato?”. McNamara: “Sì, invece. Ma se lei non lo ha ancora scoperto, non sarò certo io a dirglielo. Oh, ho sbagliato in innumerevoli occasioni”.
Feci domanda alla Stanford University (California). Ci volevo proprio andare. Ma ci volevano troppi soldi e così optai per Berkeley (California), dov’erano sufficienti 52 dollari all’anno. Erano gli anni della grande depressione. 25 milioni di uomini erano rimasti senza lavoro. Su 3.500 studenti, al secondo anno di college, tre ottennero la Phi Beta Kappa (un riconoscimento dato ai migliori studenti). Di quei tre, uno divenne Rhodes Scholar (cioè, inserito nella lista degli studenti più bravi), io andai ad Harvard e il terzo s’impiegò per 65 dollari al mese. E com’era felice per quell’impiego!
Anche se non vorrei dirlo, eravamo sull’orlo di una rivoluzione (crisi economica del ’29). Non avevo mai sentito parlare di Platone e Aristotele prima di Berkeley. Ricordo che ero al primo anno di college quando andai ad ascoltare le lezioni del professor Lowemberg, docente di filosofia. Non potei più perderne nemmeno una.
Da allora, frequentai vari corsi di filosofia _ racconta Mc Namara _. In particolare di etica e di logica. Dopo la laurea a Berkeley, andai per due anni a specializzarmi in “business affairs” ad Harvard. Poi tornai a San Francisco e cominciai a corteggiare una ragazza che avevo conosciuto a Berkeley, quando tutti e due avevamo 17 anni. Margaret Craig. Eravamo fidanzati da otto o nove mesi quando le chiesi la mano. Poi, lei partì con sua madre e sua zia per un giro turistico nel paese e mi telegrafò: “Devo ordinare le partecipazioni, ma non conosco il tuo secondo nome”. Le risposi prontamente che il mio secondo nome è Strange. E lei disse: “Lo so che è strano, ma qual è?”. Beh, volevo dire Strange, Robert Strange McNamara.
Fu un matrimonio fortunato. Avemmo il nostro primo figlio dopo un anno dalle nozze. Il parto costò cento dollari e li pagammo con dieci dollari al mese. Quelli furono fra i giorni più felici della nostra vita. Poi venne la guerra (seconda guerra mondiale).
Lezione numero 3: C’è qualcosa oltre se stessi
Fui promosso assistente universitario. Ero il più giovane assistente di Harvard, con uno stipendio di 4mila dollari all’anno. La business school di Harvard si stava assottigliando. I maschi venivano arruolati o partivano volontari. Il rettore stilò un contratto con il governo. Avremmo fondato una scuola per il “controllo statistico”. riservata agli ufficiali dell’aeronautica militare. Il rettore avvisò il Dipartimento della Difesa: “Sia chiaro che noi non vi mandiamo nessuno. Noi selezioniamo le persone. Avrete un profilo attitudinale di ogni membro dell’aeronautica. Elaboreremo questi dati con gli ordinatori dell’Ibm (corporation americana) e ne usciranno delle statistiche per età, educazione, qualità, eccetera”. Cercavamo i migliori, i più brillanti. I più adatti a comandare altri uomini e a valutare le situazioni.
Gli Stati Uniti perdevano molti uomini e mezzi nei bombardamenti. Anche le missioni non concluse erano moltissime. Così ci commissionarono una ricerca. Cosa trovammo?
Scoprimmo che il venti per cento degli aerei che decollavano dall’Inghilterra per andare a sganciare bombe sulla Germania tornavano indietro senza aver centrato il target, cioè tornavano indietro ancora prima di avere raggiunto il loro bersaglio. Si sollevò una grande confusione. Perdevamo il venti per cento del nostro potenziale in quel modo.
Naturalmente, quando un pilota non portava a termine una missione doveva compilare un modulo, credo si chiamasse 1_A. Doveva scrivere il perché. Analizzammo, perciò, tutti quei moduli e venimmo alla conclusione che erano tutte frottole. Le missioni non venivano compiute per paura, perché le perdite in vite umane, per ogni missione, erano del 4 per cento. Ogni bombardamento aereo prevedeva 25 attacchi, il che non significa che il rischio di essere uccisi fosse del cento per cento, ma era comunque molto elevato. I piloti lo sapevano e avevano trovato il modo per non raggiungere l’obiettivo. Così stilammo il nostro rapporto.
Uno dei comandanti dell’Air Force era Curtis LeMay, colonnello al comando di un gruppo di B_24. Era il più bravo di tutti quelli con cui ho avuto modo di trovarmi a che fare, ma era straordinariamente guerrafondaio. Lesse il rapporto e diede un ordine: “Io sarò al comando di un aereo di ogni missione. Ogni aereo deve raggiungere il suo obiettivo. Chi non lo farà sarà giudicato dalla Corte marziale”. Le defezioni diminuirono nello spazio di una notte. Questo era il genere di comandante che era LeMay.
Annuncio di Roosevelt
“Cari amici, questo Natale ci sono oltre dieci milioni di uomini nelle forze armate americane. Un anno fa un milione e settecentomila erano in missione oltreoceano. Dal primo giugno quel numero salirà a cinque milioni. Cattive notizie per i Japs (giapponesi, ma detto in modo denigratorio).
Lezione numero 4: Massimizzare l’efficienza
L’aeronautica militare americana aveva un nuovo aereo: il B_29.
In Europa, i B_17 e i B_24 bombardavano da 15/16mila piedi. Il problema era che erano bersagliati dalla contraerea e dagli aerei da combattimento, mentre il B_29 poteva sganciare bombe da alta quota e colpire meglio, perciò, obiettivi più strategici. Fui trasferito all’ottava divisione dell’Air Force e fui assegnato al 58° stormo, dove venivano utilizzati i B_29. Volavano dal Kansas all’India. Poi, da lì trasportavano carburante fino in Cina.
Per costruire gli aeroporti ci avvalemmo dei cinesi. Ma era un’operazione insana. Rammento ancora quei rulli che si abbattono sulle pietre per sbriciolarle. Avevamo pensato di prendere i B_29, dato che lì non avevamo aerei cisterna, e riempirli di carburante trasportandolo dall’India a Chengtu (nel Sichuan), scaricare il carburante e tornare indietro. Avremmo dovuto fare molte missioni per assicurarci un’ampia riserva di carburante a Chengtu, poi volare a Yawata (vicino Kyoto e Osaka), in Giappone, bombardare le loro acciaierie e tornare in India. Per farla breve, era peggio di una dannazione.
LeMay venne alla conclusione che era meglio spostare la base alle Marianne, nell’oceano Pacifico, e da lì andare a colpire i giapponesi. Le May aveva un solo obiettivo: la distruzione. La maggior parte dei generali dell’aeronautica militare possono raccontarvi molte cose su attacchi aerei, su quante tonnellate di bombe han fatto sganciare e che inferno facessero. Ma LeMay è il solo che io abbia mai conosciuto nell’Air Force che si concentrasse unicamente sulle perdite di ogni unità del suo equipaggio. Nel marzo del 1945 ero nell’isola di Guam (nel Pacifico) sotto il suo comando. In una sola notte uccidemmo 100mila giapponesi civili a Tokyo. Morirono bruciati uomini, donne e bambini.
Lei era consapevole di quello che sarebbe accaduto dopo? Chiede Morris a McNamara riferendosi alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto del ’45 dagli americani.
McNamara _ Ero parte di un meccanismo che in un certo senso lo contemplava. Io analizzavo le operazioni di bombardamento e valutavo le alternative per renderle più
efficienti. Non più efficienti nel senso di uccidere di più, ma più efficienti per
indebolire l’avversario. Scrissi un rapporto dove analizzavo le missioni dei B_29.
Per limitare le perdite, il B_29 poteva sorvolare un aereo da combattimento e
uno da difesa. Ora, non voglio dire che fu il mio rapporto a portare a quello che…,
lo chiamerò “bombardamento incendiario”. Io preparai un rapporto dove
analizzavo le operazioni dei B_29. Non è che sto cercando di assolvere me
stesso dalla vergogna.
Un particolare rilevante da notare è che McNamara non dirà mai “nemico” o “nemici”, ma “l’avversario”. E anche che giunge sempre ad anticipare le repliche o i giudizi che potrebbero essere la conseguenza di certe domande, come se lui si fosse già dato da solo tutte le risposte. Il che significa che ha riflettuto a lungo sulle sue azioni, ma anche che si è già “rappacificato” con se stesso (qualora, eventualmente, avesse sentito di avere dei nodi da sciogliere nel suo intimo).
Adesso, McNamara, conclude: “Non voglio dire, quindi, che fui io a ficcare nella testa di LeMay che le sue operazioni erano totalmente inefficienti e che dovevano essere drasticamente cambiate”.
Comunque, fu esattamente ciò che fece LeMay. Abbassò i B_29 a 5mila piedi e decise di bombardare Tokyo con bombe incendiarie (10 marzo 1945).
Potete leggere il “diario” delle undici lezioni di Robert McNamara, tratte dal documentario di Errol Morris The Fog of War, in sei puntate: da lunedì 23 a sabato 28 agosto 2004 sul web di Articolo 21.
Da un editoriale: La scorsa settimana, in Vietnam, sono stati 543 i soldati americani uccisi e 1.247 i feriti. E’ il più alto numero di casualties raggiunto durante un’azione. La guerra ha provocato finora 18.239 vittime. I vietnamiti del sud hanno perso 522 uomini. I comunisti non hanno divulgato il numero.
Morris _ Lei pensa di essere stato autore di come sono andate le cose o un
semplice strumento per cose che erano al di fuori del suo controllo?
McNamara _ Nessuna delle due. Io mettevo in atto le richieste del presidente
eletto dal popolo americano. Faceva parte dei miei doveri aiutarlo a portare avanti il suo compito come meglio lui riteneva di doverlo svolgere nell’interesse nazionale.
In tempo di guerra, si chiede McNamara, che cos’è moralmente appropriato per l’ambiente? Nel periodo in cui fui segretario alla Difesa, in Vietnam usammo l’agente Orange. Una sostanza chimica defoliante (prende il nome dalla sua colorazione arancione; questa sostanza tossica rendeva le foreste completamente spoglie).
Dopo la guerra, si lamentò che era una sostanza tossica, la quale aveva provocato la morte di diverse persone venute in suo contatto (militari e civili da ambo le parti). Erano dei criminali quelli che avevano autorizzato l’uso dell’agente Orange? Si erano macchiati di un crimine contro l’umanità? Andiamo a vedere cosa dice la legge. Non c’è una legge che distingue chiaramente quali siano le sostanze chimiche che è consentito usare in guerra da quelle che non lo sono. Non ci sono delle definizioni molto precise. Mai al mondo io avrei autorizzato un’azione illegale. Non sono certo di esser stato io ad autorizzare l’uso dell’agente Orange, non mi ricordo, ma di sicuro è capitato mentre ero segretario alla Difesa.
Assistei agli interrogatori – prosegue McNamara – cui furono sottoposti gli equipaggi dei B_29 che tornarono alla base dopo il bombardamento su Tokyo (10 marzo 1945). La sala era piena di militari e di agenti dell’intelligence. Un capitano esclamò: “Vorrei sapere chi è quel figlio di puttana che ha inventato questo magnifico aereo che può bombardare da 23mila piedi, e può scendere fino a 5mila facendomi perdere uno dei miei bombardieri. Gli hanno sparato ed è stato ucciso”.
LeMay di solito rispondeva a monosillabi. Non gli avevo mai sentito pronunciare più di due parole di seguito. Sì, no e “il diavolo se lo porti” erano proprio il massimo che lui diceva. E poi, LeMay, era uno che non sopportava le critiche e nemmeno si metteva a discutere. Quella volta, si alzò in piedi e replicò: “Perché siamo qui? Perché mai saremmo qui? Lei ha perso il suo bombardiere, ne soffro quanto lei. Sono io che l’ho mandato là. C’ero anch’io, so quanto è successo. Ma lei ha perso il suo bombardiere e noi abbiamo distrutto Tokyo”.
Erano bruciate 50 miglia quadrate (circa 80 km quadrati). Tokyo era costruita perlopiù in legno.
Lezione numero 5: In guerra la moderazione dovrebbe essere la regola
Morris _ Come saltò fuori la decisione di usare bombe incendiarie?
McNamara _ Non credo che il punto siano le bombe incendiarie. Il punto è: per vincere una guerra si devono uccidere 100mila persone in una notte, con bombe
incendiarie o con qualsiasi altro mezzo? LeMay direbbe di sì.
Morris _ Lei vuol dire che, anziché uccidere 100mila esseri umani, bruciare nel fuoco
100mila civili giapponesi in una sola notte, avremmo dovuto uccidere un numero
minore di persone o anche nessuno?
McNamara _ E i nostri soldati, allora? Avrebbero dovuto sbarcare sulle spiagge di Tokyo ed essere massacrati in decine di migliaia? Questo è più morale? O più saggio?
Morris _ Perché è stato deciso di sganciare le bombe atomiche se LeMay aveva già
bruciato il Giappone? Dopo Tokyo, infatti, fu distrutto il 58 per cento di Yokohama.
Yokohama è una città grande come Cleveland. Immaginiamo che il 58 per cento di
Cleveland fosse andato distrutto. Tokyo è grande quasi come New York.
Immaginiamo che il 51 per cento di New York fosse stato distrutto. O il 99 per cento di Chattanooga, che equivale a Toyama. O il 40 per cento di Los Angeles, che equivale a Nagoya. Tutto ciò fu fatto prima delle atomiche sganciate dal comandante LeMay.
McNamara _ Uccidere dal 50 al 90 per cento della popolazione di 67 città giapponesi e poi sganciare due bombe atomiche non è fare un uso proporzionato della forza. Io
non do la colpa a Truman (presidente americano dal 1945 al 1953). La
guerra americano_giapponese fu una delle più brutali della storia dell’umanità, con
i piloti kamikaze che si suicidano…. Incredibile. Quello che uno può criticare è
che la stirpe umana, oggi come allora, non ha ancora capito che sono necessarie
quelle che io chiamo “regole di guerra”.
C’era una regola, allora, che diceva _ continua McNamara _ che non si devono bruciare 100mila persone in una notte? Le May sosteneva che se avessimo perduto, saremmo stati processati come criminali di guerra. Penso che avesse ragione. Lui, e vorrei mettermici anch’io, avevamo agito come criminali di guerra.
LeMay ha riconosciuto che se avessimo perso la guerra, ciò che aveva fatto era immorale. Ma cos’è che rende immorali se perdete e non immorali se vincete?
Lyndon B. Johson _ Voglio che mi scriviate un memorandum di due pagine. Quattro brevi parole in poche frasi sulla situazione in Vietnam. Che siano la fotografia
del Vietnam. Il senatore Scott stamane l’ha definita “La guerra che non
possiamo né vincere, né perdere e nemmeno lasciar perdere è la prova
d’idee instabili. Una marea di opinioni, la nostra politica di conciliazione
nevrotica, tutte cose che hanno creato un disturbo enorme. Credete sia
un errore parlare del Vietnam e spiegare come stiamo affrontando la
situazione?
McNamara _ Credo, Signor Presidente, che sarebbe meglio per voi dire il meno
possibile. La verità è che non sappiamo come uscirne. I segnali che ho letto sui cablogrammi sono brutti. E’ un periodo molto difficile.
10 marzo 1964
Johnson _ Abbiamo bisogno di qualcuno che sappia fare dei piani migliori di quelli che abbiamo. Ciò che voglio è qualcuno che sappia togliere dalla circolazione quei ragazzi e che li mandi a urlare all’inferno. Ucciderli. Ecco cosa voglio.
McNamara _ Proverò a cercare qualcuno che possa raggiungere questo scopo.
Johnson _ Ok, buonanotte.
Lezione numero 6: Raccogli i dati
Morris _ Siamo arrivati al Vietnam. Può spiegarmi com’è potuta succedere quella
situazione?
McNamara _ E’ una domanda difficile. Credo che dobbiamo affrontarla nel contesto della guerra fredda. Prima, però, devo parlare della Ford. Devo tornare indietro alla fine della seconda guerra mondiale.
(Ford è la corporation automobilistica americana fondata da Henry Ford nel 1903 e gestita a lungo dai suoi famigliari e discendenti. Uno di loro, Gerald Ford, fu anche presidente degli Stati Uniti dal 1974 al 1977)
Avevo un terribile mal di testa, ricorda McNamara, e Marg mi portò all’ospedale dell’Air Force. Una settimana più tardi anche Marg accusò gli stessi sintomi. Non ho mai sentito che due individui, marito e moglie, si ammalino di polio allo stesso tempo. Perciò, ricoverarono anche lei nello stesso ospedale. Era il VJ Day (vittoria sul Giappone, 8 agosto 1945).
Un mio amico venne a dirmi che stava per andare a un colloquio con una corporation americana che stava cercando delle persone con delle competenze analoghe a quelle del nostro gruppo di Harvard. “Tu ci devi venire”, mi disse. Io gli risposi: “Al diavolo. Io andrò di nuovo ad Harvard e ci passerò la mia vita. E’ ciò che abbiamo deciso io e Marg”. “Guarda, caro _ mi disse lui _ che così non potrai pagare il conto dell’ospedale per Marg”.
Amico di McNamara _ La Compagnia che ha bisogno di noi è la Ford.
McNamara _ Dove l’hai letto?
Amico _ Oh, su Life Magazine.
Non credevo che ci fosse bisogno di dieci laureati come noi nell’esecutivo della Ford Motor Company. E invece, Henry Ford II aveva bisogno d ‘aiuto.
Ci sottoposero a dei test. Due giorni pieni di test. D’intelligenza, sulle nostre competenze, sulla nostra personalità (test psicologici). E’ assurdo, ma ricordo uno dei quesiti: “Vorreste essere un fioraio o un minatore?”. Io ho fatto il fioraio da ragazzo, durante le vacanze di Natale. Perciò risposi “minatore”. Penso che la ragione vi sia chiara.
Il nostro gruppo di dieci persone era stato formato ad Harvard. In alcuni test primeggiammo al di sopra del punteggio mai raggiunto. In altri, raggiungemmo la media più alta.
Dal 1926 al 1946, compresi gli anni della guerra, la Ford rischiò parecchio. I ricavi erano magri e io credo che avessimo delle responsabilità nei confronti degli azionisti. Ci trovavamo in una situazione critica.
Alla Ford non c’era un ufficio per le ricerche di mercato. Lo misi in piedi io. Il dirigente mi chiese: “Cosa volete che studi?”. “Cerca di capire chi sia il cliente della Volkswagen. Tutti sanno che non è una buona vettura. Ne vendono 20mila all’anno, ma voglio capire come andrà l’andamento delle loro vendite in futuro. Ne venderanno di più o di meno? O come adesso? Cerca chi è che le compra”. Tornò da me sei mesi dopo per dirmi: “Sono dottori, professori, avvocati. Ovviamente, gente che può permettersi qualcosa di più”.
Mi misi a pensare cosa potessimo fare. Ci eravamo dimenticati dell’esistenza di una fetta di mercato? All’epoca, nessuno pensava che gli americani volessero auto più economiche. Noi volevamo “consumare”. La Cadillac, con le sue “pinne” da ostentazione, incarnò il nostro stile industriale per dieci, quindici anni. E questo è quello che ci siamo inventati: abbiamo introdotto il marchio Falcon. Fabbricava auto più economiche e fu un successo.
“Cos’ha da dirmi sugli incidenti?”, chiesi al dirigente dell’ufficio per le ricerche di mercato, “Ho sentito dire che sono molti”. “Raccoglierò i dati”, disse lui.
Venne fuori che gli incidenti automobilistici causavano 40mila morti, più un milione di feriti ogni anno. Le cause principali erano dovute a errori umani e a guasti meccanici. “Sono i guasti che ci riguardano. Indaghi su quelli”, impartii al dirigente. Lui mi avvisò che i dati disponibili erano pochissimi. “Dannazione, li tiri fuori da qualche parte”, insistetti. “L’unico posto sono i laboratori aeronautici di Cornell” (centro statistico californiano). Risultò che il problema principale era l’abitacolo delle autovetture.
Gli esperti di Cornell mi chiesero: “Ha notato come sono confezionate le uova che compra?”. “Veramente le compra solo mia moglie”, dovetti ammettere. Allora le chieda se quando porta a casa la scatola di cartone le uova si sono rotte, conclusero. Marg mi disse di no, che le uova erano intatte nella confezione. “Infatti _ dissero quelli del Cornell _, restano intatte perché sono state ben confezionate. Ora, se noi mettiamo delle persone dentro un’automobile usando le stesse precauzioni, non rischieremo di romperle”.
Così gettammo dei crani umani avviluppati in diversi tipi di confezione dalla tromba delle scale di Cornell. Quei ragazzi avevano assolutamente ragione: è la confezione che fa la differenza. In uno scontro, avveniva spesso che il volante sfondasse il torace del conducente e che i passeggeri restassero feriti o dal parabrezza o dal cruscotto. Nel 1956, quindi, introducemmo sui modelli Ford delle imbottiture speciali e le cinture di sicurezza. Avevamo stimato che se le cinture fossero state usate dal cento per cento degli automobilisti, avrebbero salvato più di 20mila vite all’anno. Tuttavia, non si può obbligare la gente a usare le cinture, ma quelli che lo hanno fatto si sono salvati.
Nel luglio del 1960 John Bugas, uno dei vicepresidenti Ford, sognava di essere nominato presidente. Io ero il vicepresidente della divisione automobilistica. Ad Henry Ford II piaceva girare di notte per la città, dopo l’ufficio. Una sera mi disse: “Bob, andiamo a bere a qualcosa”. “Lo sai? Sono le due di notte. Voglio andare a dormire”, risposi. John Bugas disse: “Ci vengo io, Henry”. “Non l’ho chiesto a te”, fu la risposta di Henry. Così ci andai e mi chiese di diventare il presidente della Ford.
Fui il primo presidente, nella storia della Ford, che non apparteneva alla famiglia. E dopo cinque settimane diedi le dimissioni.
Di lì a poco, un giorno, squillò il telefono. “Sono Robert Kennedy. Mio fratello Jack (John F. Kennedy) vorrebbe chiederle d’incontrare nostro cognato Sargent Shriver”. Alle quattro del pomeriggio arrivò Shriver, che non avevo mai incontrato prima. “Sono stato autorizzato da mio cognato Jack Kennedy di offrirle il posto di segretario al Tesoro”. Risposi: “Lei è fuori di testa. Conosco un po’ di finanza, ma non abbastanza per fare il segretario al Tesoro”. E Shriver: “Prevedendo la sua risposta, il Presidente Kennedy mi autorizza a offrirle la posizione di segretario alla Difesa”. “Ehi _ protestai _, sono stato tre anni in guerra durante la seconda guerra mondiale, ma segretario alla Difesa? Non sono qualificato per farlo”. “Bene, prevedendo la sua risposta, vorrebbe almeno farci la cortesia d’incontrare il Presidente?”.
Tornai a casa per parlare con Marg. Avevo due condizioni. Volevo poter nominare io ogni ufficiale che avesse dei ruoli di responsabilità al Pentagono e non volevo aver niente a che fare con la “vita sociale” di Whashington. Marg disse: “Bene, perché non fai un contratto con il Presidente e poni queste due condizioni? Se accetta, ci vai”. In quel momento ero fra gli executive meglio pagati al mondo: 800mila dollari all’anno, più svariati milioni di azioni. E il mio futuro si preannunciava roseo.
Chiamammo i bambini. La loro vita sarebbe totalmente cambiata. La remunerazione di un segretario di gabinetto era di 25mila dollari all’anno. Così spiegammo loro che avrebbero dovuto fare delle rinunce, come Marg.
Nevicava. Alcuni uomini dei servizi segreti m’introdussero nella casa da una porta sul retro. Jack Kennedy era seduto in poltrona. Bobby Kennedy stava in un’altra. “Signor Presidente, non sono abbastanza qualificato”, mi accinsi a dire. “Bob, guarda che non esistono scuole per diventare presidenti”, mi disse JFK (presidente americano dal 1961 al 1963, anno in cui fu assassinato). “Lasciamelo annunciare”, continuò. Così, si mise a scrivere l’annuncio e mi accompagnò all’ingresso principale. Dannazione, c’erano già le tv e i giornali. Perciò, accettai, in diretta televisiva. E’ così che lo seppe Marg.
Iniziò la mia vita di segretario alla Difesa. Come sapete, fu un periodo molto turbolento. A mia moglie venne l’ulcera, forse per lo stress, e anche a mio figlio. Ma furono fra gli anni migliori della nostra vita e ogni membro della mia famiglia ha ottenuto dei benefici da quel periodo.
2 ottobre 1963
Ero appena tornato dal Vietnam. Allora, avevamo 16mila consulenti militari. Mi ero raccomandato con il presidente Kennedy e con il Consiglio di Sicurezza di fissare un piano per rimuoverli tutti entro due anni.
Kennedy _ Che vantaggio ci sarebbe?
McNamara _ Potremo dire al Congresso e agli americani che abbiamo un piano per
ridurre l’esposizione dei militari americani coinvolti nel conflitto.
Kennedy _ L’unica riserva che ho su questo è che se la guerra continua a non
andare bene, sembrerà che siamo stati eccessivamente ottimisti.
McNamara_ Abbiamo bisogno di tirarci fuori dal Vietnam e questo è un modo per farlo.
Kennedy diede l’annuncio che entro la fine del 1965 avremmo abolito tutti i consulenti militari e che stavamo per ritirarne mille entro il 1963. Così fu. Ma ci fu il colpo di stato nel sud del Vietnam. Diem e suo fratello furono uccisi (Ngo Dinh Diem, presidente “fantoccio” del Vietnam in quell’epoca). Kennedy, con cui mi trovavo nel momento in cui giunse la notizia, impallidì come un cencio. Avevamo avuto dei problemi con Diem, tuttavia, per Dio!, lui rappresentava l’autorità. E un golpe l’aveva fatto fuori. Kennedy sapeva, come me, che entro una certa misura ne erano responsabili anche gli Stati Uniti.
22 novembre 1963
Ero al Pentagono quando mi telefonò Bobby. A Dallas avevano sparato al presidente. 45 minuti dopo Bobby mi richiamò: il presidente era morto. Jackie voleva che la raggiungessi all’ospedale. Portammo il corpo di Kennedy alla Casa Bianca alle quattro del mattino. Io chiamai il soprintendente del cimitero di Arlington. Camminammo insieme per quei campi. Erano bellissimi, con le croci bianche perfettamente allineate. Finalmente pensai di aver trovato il posto giusto, il più bello di tutto il cimitero. Chiamai Jackie alla Casa Bianca. Lei accettò di venire subito. E quello è il posto dov’è sepolto il presidente.
Un sorvegliante mi disse che alcune settimane prima aveva scortato Kennedy per una visita al cimitero e il presidente gli aveva detto, fermandosi in quel punto: “Questo è il più bel posto di Washington”.
25 febbraio 1964
Johnson _ Pronto, Bob?
McNamara _ Sì, Signor Presidente.
Johnson _ Sono desolato di dover modificare il tuo discorso, perché è molto bello, ma mi stavo domandando se possiamo inserire due minuti sul Vietnam.
McNamara _ Certo. Il problema è cosa dire.
Johnson _ Ti dirò cosa vorrei dire. Vorrei dire che abbiamo preso l’impegno di liberare i vietnamiti. Se ce ne andiamo, quella parte del mondo cadrà nelle mani dei
comunisti. Potremmo mandare i nostri marines e ci potremmo trovare coinvolti nella terza guerra mondiale o in un’altra guerra di Corea. Nessuno ci capisce veramente qualcosa di cosa stia succedendo laggiù. Cii viene chiesto perché non facciamo di più. Io la penso così: si può avere più guerra o si avere più pace con la guerra. Ma non possiamo volere più di questo. Abbiamo il compito di educare quella gente (i vietnamiti del sud, i cosiddetti vietcong) e, dopo, tutto andrà bene.
McNamara _ D’accordo, signore, io……
Johnson _ Ho sempre pensato che fosse folle parlare di ritiro. Pensavo che fosse
psicologicamente negativo. Ma lei e il presidente (intende Kennedy) la
pensavate diversamente, e io stavo zitto.
McNamara _ Il problema è ….
Johnson _ Veniamo al dunque. Come pensa McNamara, quando si perde una guerra, di tirare fuori i suoi uomini da lì?
9 giugno 1964
McNamara _ Se chiedete alla Cia “Com’è oggi la situazione nel Vietnam del Sud?” credo che vi risponderebbero che è peggiorata. Lo si capisce dalle diserzioni,
dal morale, dalla difficoltà di reclutare nuovi soldati, dall’opinione pubblica.
Molti di noi, in privato, ammettono che le cose non vanno e che andranno
peggio. Ora, mentre ci diciamo questo in privato e non in pubblico,
ci sono delle notizie che finiscono sulla stampa. Se vogliamo
rimanere là, dobbiamo convincere la gente, Signor Presidente. Finora noi
non l’abbiamo fatto. Non sono sicuro, ora, che sia il momento giusto.
Johnson _ No, e penso che quando comincerete a farlo vi spareranno contro “Siete
un guerrafondaio”.
McNamara _ Sono completamente d’accordo.
Lezione numero 7: Le convinzioni e la vista spesso c’ingannano
2 agosto 1964
Il 2 agosto, il cacciatorpediniere americano Maddox fu attaccato nel Golfo del Tonchino da siluri lanciati da un battello da ricognizione del Vietnam del Nord. Fu un atto di aggressione nei nostri confronti, che eravamo in acque internazionali. Furono rinvenuti dei pezzi e furono chiaramente identificati come appartenenti a un battello del Vietnam del Nord. Per me non c’erano dubbi sull’accaduto, ma non era il caso di reagire. Solo che fu molto difficile. Era difficile per il presidente: c’erano molti uomini in uniforme e non che dicevano “Mio Dio, il presidente è un…. _ non osavano dire “codardo” _ ….non protegge l’interesse nazionale”.
4 agosto 1964
Due giorni dopo, il Maddox e il Turner Joy (altro cacciatorpediniere americano) furono apparentemente attaccati.
Johnson _ Da dove vengono questi siluri?
McNamara _ Non lo sappiamo. Presumibilmente da imbarcazioni non identificate.
I sonar (dispositivi segnalatori) avevano captato dei segnali, forse dei siluri, provenienti da dei battelli da ricognizione. Quel giorno passammo dieci ore a cercare di capire cosa fosse accaduto. A un certo punto, uno dei comandanti delle navi disse “Non siamo certi dell’attacco”. Dopo un po’, dissero: “Sì, ne siamo del tutto certi”. Finalmente, verso sera, l’ammiraglio Sharp sentenziò: “Siamo certi dell’attacco”.
Così lo riferii a Johnson e come risultato ci furono i bombardamenti sul Vietnam del Nord.
Johnson disse che potevamo rincarare la dose, ma io non volli farlo senza l’autorizzazione del Congresso. E lui fece approvare una Risoluzione che concedeva del tutto al presidente di portare in guerra la nazione. La Risoluzione del Golfo del Tonchino. Ora, lasciatemi tornare a quell’attacco del 4 agosto.
4 agosto 1964
ammiraglio Sharp _ Apparentemente, sembrerebbe che in mare ci fossero nove siluri. Tutti mancati.
generale Burchinal _ Yup (esclamazione tipo “cavoli” o … peggio)
ammiraglio Sharp _ Un minuto. Non sono così certo del numero. Dobbiamo controllare meglio.
97 minuti dopo
ammiraglio Sharp _ L’ammiraglio Moore dice che molti dei contatti con i siluri sarebbero incerti. Possono avere influito sui radar e sui sonar le condizioni
del tempo.
generale Burchinal _ Okay. Lo dico al Signor McNamara.
ammiraglio Sharp _ E’ meglio aspettare, Dave (Dave Burchinal). Scusami.
9 minuti più tardi
ammiraglio Sharp _ Adesso sembra che questi attacchi con i siluri siano stati
interpretati dagli addetti ai sonar. Erano molto agitati per una cosa
del genere e forse hanno scambiato qualsiasi suono per un siluro.
generale Burchinal _ Allora, sei sicuro che ci sia stato un attacco con dei siluri?
ammiraglio Sharp _ Oh, nessun dubbio su quello …. penso.
Dunque, riprende a raccontare McNamara, c’era molta confusione, e gli eventi successivi hanno dimostrato che il presunto attacco quel giorno non c’era stato. Il giudizio sul fatto che eravamo stati attaccati il 2 agosto era corretto, sebbene all’inizio fossimo increduli. Così, avevamo visto giusto la prima volta e sbagliato la seconda.
Poi, il presidente Johnson ordinò di bombardare, rispondendo a ciò che egli credeva essere stato un secondo attacco. Non ci fu, ma è irrilevante per il mio ragionamento. Lui ordinò il bombardamento credendo che quell’attacco ci fosse stato. E la sua convinzione era che i vietnamiti del nord avessero consapevolmente preso quella decisione per alzare il livello del conflitto e che non si volessero fermare fino alla vittoria. Eravamo in errore, ma ci eravamo concentrati su quell’idea.
McNamara _ Quell’azione comportò dei costi molto alti. Avevamo visto male o visto un pezzo della cosa alla volta.
Morris _ Si vede ciò che si vuole credere.
McNamara _ E’ vero. Convinzioni e vista spesso c’ingannano.
Lezione numero 8: Sii pronto a riesaminare le tue ragioni
Fu varato il “Rolling Thunder”, continua McNamara (“tuono rimbombante”, operazioni di bombardamento aereo che gli americani effettuarono con i B_52 sul Vietnam del Nord e su Hanoi dal marzo del 1965 all’ottobre del 1968).
Il nuovo programma, con l’andar del tempo, divenne sempre più massiccio. Furono sganciate due o tre volte in più delle bombe lanciate in Europa durante la seconda guerra mondiale. Ma non era solo un problema militare. I vietnamiti del Sud lottavano con la convinzione della mente e del cuore.
26 febbraio 1965
Johnson _ Abbiamo finito per bombardare quella gente. Abbiamo saltato l’ostacolo.
La partita ora è al quarto quarto e il punteggio è di 78 a zero (linguaggio
sportivo del football americano). Sono spaventato da morire all’idea di
mettere in campo i battaglioni di terra, ma sono ancora più terrorizzato
dall’idea di perdere un mucchio di aerei per mancanza di sicurezza.
McNamara _ Anch’io.
6 marzo 1965, arrivano in Vietnam le truppe americane anfibie, i “marines”
Johnson _ L’impatto fisico del “Stanno arrivando i marines” può essere negativo. Le madri diranno “Uh, ohhh ….”. Quando darete l’ordine?
McNamara _ Stasera sul tardi, per evitare che la notizia finisca sui giornali di domani. Faremo in modo di minimizzare l’annuncio.
10 giugno 1965
McNamara _ Westmoreland chiede altri dieci battaglioni, oltre ai tredici che avete già autorizzato. Sarebbero altri 45mila marines. Io direi cinque battaglioni con
la forza di 25mila uomini. Perché la mia idea di fondo è di limitare
l’esposizione. E non credo che i capi militari (del Consiglio di guerra) lo
farebbero.
Johnson _ Nessun dannato essere umano pensa che 50mila o 100 mila o 150mila
soldati mettano fine a questa guerra. Non ne stiamo venendo fuori, ma
stiamo facendo il possibile. E sta andando male.
Speaker televisivo: Oggi è stato annunciato che il numero delle casualties (lista delle vittime) in Vietnam è di 4.877, di cui 748 soldati uccisi.
Speaker televisivo: L’addestramento dei soldati inviati in Vietnam è avvenuto nel Kentucky. I soldati, però, non sono stati preparati ad affrontare la giungla, i precipizi, una temperatura di 90 gradi, i serpenti, gli insetti e le trappole che i vietcong realizzano usando l’ambiente naturale.
Speaker televisivo: Ciò ha cambiato una piccola guerra pericolosa in una pericolosa guerra di medie dimensioni. Anche i vietnamiti subiscono molte perdite, ma settimana dopo settimana le cifre delle casualties americane salgono.
Johnson _ L’America vincerà la guerra. Non confondiamoci. Non abbiamo dichiarato
guerra contro la tirannia e contro l’aggressione per niente. Se quella
piccola nazione non potrà conservare la sua indipendenza, chiedetevi
che cosa potrà succedere di tutte le altre piccole nazioni.
2 dicembre 1965
McNamara _ Mi convinco sempre di più che dovremmo pensare a qualche azione che non sia unicamente di tipo militare. Se no, sarà un suicidio. Io penso che
spingere là 300/400mila americani senza essere in grado di garantire
cosa potrà succedere, comporterà un costo terribile e un rischio terribile.
Torno indietro un momento, prosegue il suo racconto McNamara, alla crisi dei missili a Cuba. Alla fine, credo che ci mettemmo nella pelle dei sovietici. Nel caso del Vietnam, invece, noi non cercammo di capirli. Non fummo abbastanza empatici. E come risultato, ci sbagliammo di grosso. Loro pensavano che stessimo cercando di sostituirci al potere coloniale francese; che stessimo cercando, cioè, di assoggettare i vietnamiti del sud e del nord ai nostri interessi coloniali. Era semplicemente assurdo! Mentre noi vedevamo il Vietnam come un elemento della guerra fredda, loro la vedevano come una guerra civile.
Non ci sono molti casi in cui i due ex grandi nemici di un tempo discutono insieme di cosa fosse successo. Io formulai l’ipotesi che ciascuno di noi avrebbe potuto raggiungere i propri obiettivi senza tutto quello spargimento di sangue. L’ex ministro degli esteri vietnamita, Thach (Nguyen Co Thach), una persona straordinaria, mi disse che ero totalmente fuori strada: “Noi combattevamo per la nostra indipendenza. Voi per renderci sudditi”.
Ci stavamo scaldando. Esclamai: “Lei vuol dire che non fu una tragedia per voi perdere 3 milioni e 400mila vietnamiti in guerra che, facendo le debite proporzioni, sarebbe come dire 27 milioni di americani? Che cosa ci avete guadagnato? Non avete ottenuto nulla di più di quello che vi avevamo già offerto all’inizio della guerra. Dannazione, avreste avuto l’indipendenza e l’unificazione del Vietnam!”. “Signor McNamara, non credo che lei abbia mai letto un libro di storia. Se l’avesse letto, saprebbe che non volevamo essere delle pedine dei cinesi e dei russi. Lo sa? Non capisce che abbiamo lottato mille anni contro i cinesi per difendere la nostra indipendenza? E avremmo continuato fino all’ultimo uomo. Nessun bombardamento, nessuna pressione americana avrebbe mai potuto indurci a desistere”.
Che cosa ci rende onnipotenti?, commenta l’ex segretario alla Difesa. Oggi siamo la prima potenza mondiale. Io non credo che dovremmo farlo pesare unilateralmente in campo economico, politico e militare. Nessuno dei nostri alleati ci sosterrebbe. Non il Giappone, la Germania, il Regno Unito e la Francia. Se non possiamo convincere le nazioni con l’incomparabile merito della nostra buona causa, è meglio che riesaminiamo il nostro modo di ragionare
Lezione numero 9: Per fare bene, a volte devi usare il male
McNamara continua il suo racconto. Morgan Morrison era quacchero (il 2 novembre del 1965 si cosparse di benzina fuori dall’ufficio di McNamara al Pentagono e morì per le ustioni). Credeva nella pace e nella non violenza. Stringeva fra le braccia la sua figlioletta. “Salvate la bambina!”, urlavano i passanti. Lui la lasciò andare e lei si salvò.
La moglie di Morrison fece una dichiarazione: “Gli esseri umani devono smetterla di uccidere altri esseri umani”. E’ un concetto che condividevo allora e condivido ancor di più oggi. Quanto male dobbiamo fare allo scopo di fare del bene? Occorre riconoscere che qualche volta bisogna contaminarsi col male, ma limitandolo. Ricordo di aver letto le imprese del generale Sherman nella guerra civile americana (guerra di Secessione, 1861_1865). Il sindaco di Atlanta lo implorò di risparmiare la città. E Sherman rispose, prima di fare appiccare il fuoco e bruciarla: “La guerra è crudele. La guerra è crudeltà”. La pensava come LeMay. Lui cercava di salvare la nazione, la nostra nazione. E per farlo era disposto a uccidere. Trovarsi in una situazione come questa è molto, molto difficile per un essere umano sensibile. Morrison era fra quelli. Penso che lo fossi anch’io.
50mila persone manifestarono a Washington contro la guerra. Di queste, 20mila arrivarono di fronte al Pentagono. Per proteggerlo, noi schierammo delle truppe di fucilieri, con i marescialli davanti ai soldati. Ma dissi al presidente: “Nessun colpo sarà sparato senza la mia autorizzazione”. Lo dissi anche se non ero in grado di poterlo garantire.
Morris _ Che effetto ebbero le proteste su di lei? Il suicidio di Morrison nel 1965, le
manifestazioni del 1967…
McNamara _ C’era molta tensione in quel periodo. Anche per la mia famiglia. Ma è una cosa di cui non voglio parlare.
Morris _ Quel periodo cambiò in qualche modo il suo pensiero?
McNamara _ Non credo che lo cambiò. C’era la guerra fredda. E quelle erano attività da guerra fredda.
Lezione numero 10: Mai dire mai
Un giornalista _ Alcuni commentatori dicono che la guerra è a un punto morto.
McNamara _ No, al contrario. Come ha puntualizzato il generale Westmoreland da
Saigon, le operazioni militari continuano a dimostrare dei progressi
sostanziali.
Una delle prime lezioni che ho imparato molto presto, spiega McNamara, è mai dire mai. E un’altra è che non si deve mai rispondere alla domanda che vi fanno, ma a quella che avreste voluto che vi avessero fatto. Sinceramente, ho seguito quella regola. Era molto efficace.
Morris _ Quando lei parla di responsabilità per qualcosa come la guerra in Vietnam,
a quale tipo di responsabilità si riferisce?
McNamara _ La responsabilità del presidente. Non voglio trascurare di riconoscere il contributo che, penso, Johnson diede al paese. Non voglio mettere tutta la responsabilità del Vietnam solo sue spalle, ma sono incline a credere che se Kennedy fosse stato vivo, avrebbe fatto la differenza. Non credo che avremmo portato là 500mila uomini. Ho due immagini fotografiche che parlano da sole. In una, c’è Johnson che sembra pensare: “Mio Dio, sono in un bel casino. E questo qui sta cercando di dirmi di fare qualcosa che io so che è sbagliata e che non farò. Come diavolo posso fare per venirne fuori?”. Nell’altra foto, potete vedere me mentre stavo
pensando: “Gesù, io rispetto quest’uomo, gli sono affezionato, ma sta sbagliando. Che cosa devo fare?”.
Johnson non riusciva a convincermi, chiarisce McNamara, né io riuscivo a convincere lui. Io ero devoto, leale e rispettoso sia verso Kennedy che verso Jonhson. Ma alla fine Johnson ed io ci trovammo ai poli opposti. Un giorno, confidai a una mia cara amica, Kay Graham, l’editore che fondò il Washington Post: “Anche oggi, Kay, non so se devo dimettermi o se devo farmi licenziare”. “Sei matto?” mi disse lei “Certo che devi farti licenziare!”.
1° novembre 1967
Preparai un memo per Johnson: “Il modo in cui stiamo procedendo è del tutto sbagliato. Dobbiamo cambiarlo. Dobbiamo dare un taglio a tutto quello stiamo facendo in Vietnam. Dobbiamo ridurre le casualties, e così via”. Era un memo molto polemico e glielo portai personalmente. “Signor Presidente, nessuno lo ha letto. Né Dean Rusk, né il presidente dei Capi (del Consiglio di Sicurezza), nessuno. So che contiene dei consigli e delle affermazioni che lei non gradirà, né approverà”.
Io mi sentivo stressato, sotto pressione, come se fossi stato mentalmente esaurito. Era davvero un congedo traumatico. E fu in questo modo che finì. Eccetto per una cosa: lui volle premiarmi con una medaglia al valore civile con una cerimonia alla Casa Bianca. Fu molto, molto tenero con me nel suo discorso. Ero così emozionato che non riuscii a rispondere.
Avrei voluto dire questo: “So quello che molti di voi stanno pensando. State pensando che è un uomo doppio (si riferisce a Johnson). Voi pensate che si sia tenuto delle cose dentro di sé. Voi pensate che non abbia risposto pienamente ai desideri del popolo americano. E io voglio dirvi: vi state sbagliando”.
Non c’è dubbio che Johnson avesse delle idiosincrasie. Non accettava nessun consiglio. In diverse occasioni i suoi consiglieri gli dissero di essere più disponibile. Non lo era. La gente, allora, non capiva che c’erano delle pressioni che avrebbero potuto farci correre il rischio di trovarci in guerra con la Cina e incappare in una guerra atomica. E lui era determinato a prevenirlo. Voglio dire che aveva delle ragioni nella sua testa per fare quello che ha fatto. Poco dopo le mie dimissioni, naturalmente, Johnson venne alle conclusioni che non poteva più continuare (non si ripresentò alle elezioni del 1968).
Morris _ A quel punto, quanti americani erano morti in Vietnam?
McNamara _ 25mila. Circa la metà del numero di vittime finali: 58mila.
Gli storici non fanno calcoli, loro vogliono parlare dei fatti della storia, riprende il racconto McNamara. Bene, io so come sono andate certe cose. Quello che sto facendo, però, è di riflettere con il senno di poi. Il senno di poi non era disponibile all’epoca dei fatti. Sono molto orgoglioso di ciò che ho fatto e sono molto dispiaciuto che nel farlo io abbia commesso degli errori.
Lezione numero 11: Non si può cambiare la natura umana
Tutti sappiamo di sbagliare. Non conosco nessun capo militare che, se è onesto, non ammetterebbe di aver compiuto degli errori. C’è una bellissima locuzione: “La nebbia di guerra” (The Fog of War dà il titolo a questa videointervista). Significa che la complessità della guerra è tale che va oltre la capacità della mente umana di comprenderne tutte le variabili. La nostra capacità di valutazione non è adeguata a questa complessità. E così uccidiamo persone senza che sia necessario.
Wilson disse: “Abbiamo vinto la guerra per mettere fine a tutte le guerre”. Non sono così naïf o sempliciotto da credere che le guerre finiranno. Non possiamo cambiare la natura umana così facilmente. Non è che non siamo razionali. Lo siamo. Ma la razionalità ha i suoi limiti.
Morris _ Prima che lasciasse l’amministrazione Johnson, perché non si oppose
alla guerra in Vietnam?
McNamara _ Non aggiungerò altro su questo che non le abbia già detto. Questo è il genere di domande che mi mettono nei pasticci. Lei non ha idea di come le mie parole possano apparire irritanti. Molte persone non capiscono la guerra e non capiscono me. Molti pensano che io sia un figlio di puttana.
Morris _ Lei, per la guerra, si sente colpevole?
McNamara _ Basta adesso. Non aggiungerò altro sul Vietnam. Aprirebbe solo
polemiche. E’ così complesso che qualsiasi cosa aggiungessi, richiederebbe molte spiegazioni e aggiunte.
Morris _ Sente che sarebbe disapprovato se ne parlasse, e anche se non ne
parlasse, non importa in che modo?
McNamara _ E’ così. Sarei piuttosto disapprovato, anche se non ne parlassi.
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McNamara parla della propria vita
L’11 novembre del 1918, avevo due anni, San Francisco (città natale di McNamara) era in preda alla gioia. Potete non credere che io possa avere un ricordo simile di quell’età, ma è vero. Ricordo la folla che si riversava nelle strade, la gente di abbracciava, si baciava. Era finita la prima guerra mondiale. Avevamo vinto. Il sogno di Woodrow Wilson (presidente americano dal 1913 al 1921) era che il mondo non conoscesse mai più la guerra. Che non ci fossero mai più conflitti fra grandi potenze. Mi ricordo anche che non mi era permesso uscire in strada a giocare senza indossare prima la maschera. C’era l’asiatica, per colpa della quale morirono da 600mila a un milione di persone nel mondo.
In prima elementare nella mia classe c’era una maestra eccezionale. Ogni mese ci sottoponeva a una prova. In base ai risultati di ciascuno, la maestra ci faceva sedere dal primo all’ultimo banco, in file verticali. L’alunno col punteggio migliore sedeva nel primo banco a sinistra. Io m’impegnai molto per conquistare quel primo banco. Oggi, la maggior parte delle scolaresche è formata da bianchi, caucasici, wasp (protestanti d’origine anglosassone), e così via. La mia competizione per il primo banco, allora, avveniva con cinesi, ebrei, giapponesi. Di sabato e domenica i miei compagni frequentavano le loro scuole etniche, dove imparavano la loro lingua e le loro tradizioni. Il lunedì tornavano a scuola determinati a battere quel dannato di un irlandese (McNamara parla di se stesso). Ma non ci sono riusciti troppo frequentemente………………
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Feci domanda alla Stanford University (California). Ci volevo proprio andare. Ma ci volevano troppi soldi e così optai per Berkeley (California), dov’erano sufficienti 52 dollari all’anno. Erano gli anni della grande depressione. 25 milioni di uomini erano rimasti senza lavoro. Su 3.500 studenti, al secondo anno di college, tre ottennero la Phi Beta Kappa (un riconoscimento dato ai migliori studenti). Di quei tre, uno divenne Rhodes Scholar (cioè, inserito nella lista degli studenti più bravi), io andai ad Harvard e il terzo s’impiegò per 65 dollari al mese. E com’era felice per quell’impiego!
Anche se non vorrei dirlo, eravamo sull’orlo di una rivoluzione (crisi economica del ’29). Non avevo mai sentito parlare di Platone e Aristotele prima di Berkeley. Ricordo che ero al primo anno di college quando andai ad ascoltare le lezioni del professor Lowemberg, docente di filosofia. Non potei più perderne nemmeno una.
Da allora, frequentai vari corsi di filosofia _ racconta Mc Namara _. In particolare di etica e di logica. Dopo la laurea a Berkeley, andai per due anni a specializzarmi in “business affairs” ad Harvard. Poi tornai a San Francisco e cominciai a corteggiare una ragazza che avevo conosciuto a Berkeley, quando tutti e due avevamo 17 anni. Margaret Craig. Eravamo fidanzati da otto o nove mesi quando le chiesi la mano. Poi, lei partì con sua madre e sua zia per un giro turistico nel paese e mi telegrafò: “Devo ordinare le partecipazioni, ma non conosco il tuo secondo nome”. Le risposi prontamente che il mio secondo nome è Strange. E lei disse: “Lo so che è strano, ma qual è?”. Beh, volevo dire Strange, Robert Strange McNamara.
Fu un matrimonio fortunato. Avemmo il nostro primo figlio dopo un anno dalle nozze. Il parto costò cento dollari e li pagammo con dieci dollari al mese. Quelli furono fra i giorni più felici della nostra vita. Poi venne la guerra (seconda guerra mondiale).
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Era il VJ Day (vittoria sul Giappone, 8 agosto 1945). Un mio amico venne a dirmi che stava per andare a un colloquio con una corporation americana che stava cercando delle persone con delle competenze analoghe a quelle del nostro gruppo di Harvard
Fui il primo presidente, nella storia della Ford, che non apparteneva alla famiglia. E dopo cinque settimane diedi le dimissioni.
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Di lì a poco, un giorno, squillò il telefono. “Sono Robert Kennedy. Mio fratello Jack (John F. Kennedy) vorrebbe chiederle d’incontrare nostro cognato Sargent Shriver”. …………………………..Iniziò la mia vita di segretario alla Difesa.
…………………….22 novembre 1963
Ero al Pentagono quando mi telefonò Bobby. A Dallas avevano sparato al presidente. 45 minuti dopo Bobby mi richiamò: il presidente era morto. Jackie voleva che la raggiungessi all’ospedale. Portammo il corpo di Kennedy alla Casa Bianca alle quattro del mattino. Io chiamai il soprintendente del cimitero di Arlington.
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1° novembre 1967
Preparai un memo per Johnson: “Il modo in cui stiamo procedendo è del tutto sbagliato. Dobbiamo cambiarlo. Dobbiamo dare un taglio a tutto quello stiamo facendo in Vietnam. Dobbiamo ridurre le casualties, e così via”. Era un memo molto polemico e glielo portai personalmente. “Signor Presidente, nessuno lo ha letto. Né Dean Rusk, né il presidente dei Capi (del Consiglio di Sicurezza), nessuno. So che contiene dei consigli e delle affermazioni che lei non gradirà, né approverà”.
Io mi sentivo stressato, sotto pressione, come se fossi stato mentalmente esaurito. Era davvero un congedo traumatico. E fu in questo modo che finì. Eccetto per una cosa: lui volle premiarmi con una medaglia al valore civile con una cerimonia alla Casa Bianca. Fu molto, molto tenero con me nel suo discorso. Ero così emozionato che non riuscii a rispondere.
Avrei voluto dire questo: “So quello che molti di voi stanno pensando. State pensando che è un uomo doppio (si riferisce a Johnson). Voi pensate che si sia tenuto delle cose dentro di sé. Voi pensate che non abbia risposto pienamente ai desideri del popolo americano. E io voglio dirvi: vi state sbagliando”.
Non c’è dubbio che Johnson avesse delle idiosincrasie. Non accettava nessun consiglio. In diverse occasioni i suoi consiglieri gli dissero di essere più disponibile. Non lo era. La gente, allora, non capiva che c’erano delle pressioni che avrebbero potuto farci correre il rischio di trovarci in guerra con la Cina e incappare in una guerra atomica. E lui era determinato a prevenirlo. Voglio dire che aveva delle ragioni nella sua testa per fare quello che ha fatto. Poco dopo le mie dimissioni, naturalmente, Johnson venne alle conclusioni che non poteva più continuare (non si ripresentò alle elezioni del 1968).
McNamara è stato il presidente della Banca Mondiale dal 1968 al 1981. In seguito, ha continuato a occuparsi di problemi mondiali come la povertà, la salute e lo sviluppo economico.
Impresa facile tirare le somme di questa lunga tiritera?
A parte le considerazioni che ognuno può fare, anche psicologicamente, sulla controversa figura di un soggetto come McNamara, che pur se si raccontasse ancora per i prossimi cent’anni credo che non si verrebbe automaticamente a capo di nulla _ anche perché i temi da lui toccati hanno molto a che fare con i nostri valori personali, i nostri ideali, individuali e collettivi, i nostri sentimenti; con quel chimismo, insomma, che dipende da come siamo fatti noi, dalla formazione etica e politica che ci permea e che fa sì che ci consideriamo a favore o no del pacifismo più radicale o di quello moderato, o dell’interventismo militare con i se e con i ma (cioè, quello che più o meno sostiene la possibilità di una guerra solo se lo dice l’Onu), o del multilateralismo affidato unicamente alle diplomazie (anche lì, tutto da vedere di che pasta sono fatte) _ quello che potrebbe essere interessante in questo racconto sta proprio cominciando dalla fine. Cioè, dalla nebbia.
La nebbia di cui parla McNamara non è una qualsiasi.
The Fog of War, seppure appaia una frase così facile è invece abbastanza intraducibile in italiano. Non è “la nebbia di guerra”. Si avvicina un po’ di più a “quella nebbia di guerra”, ma sarebbe ancora meglio dire “quella nebbia lì di guerra”.
McNamara ci avverte: le dinamiche in cui si svolge una guerra sono talmente complesse che la mente umana non riesce ad afferrarne tutte le variabili e, allora, succedono i patatrac, e si uccidono le persone, si usano sostanze criminali, si perpetrano distruzioni immotivate, si compiono azioni inusitate, e inutili.
Il problema, per McNamara, è la debolezza della mente umana che non riesce ad aprirsi un varco “certo” in questa nebbia. Quindi, la mente umana è annebbiata, cioè non vede “oltre”. McNamara, però, sembra trascurare alla grande un particolare che non è irrilevante. Perché non si fa in modo di non arrivare alla guerra o, almeno, non si fa abbastanza per evitarla? Possibile che uomini come lui (per ruolo, potere e competenze con l’intera faccenda) non possano mettere un freno molto tempo prima che l’irreparabile trascini via tutto il buon senso del mondo come un uragano impazzito?
Il punto, allora, sembrerebbe distinguibile in due parti: “quella nebbia lì” che scende prima che un pugno di uomini decidano di sferrare una guerra e “quella nebbia lì” che si è ormai sparsa ovunque quando la guerra è cominciata.
McNamara di questo “prima” non ci parla, come se la cosa non fosse un problema di sua competenza. Basterebbe, allora, signor McNamara, cambiare il nome da “segretario alla Difesa” in “segretario per la Guerra”.
Gli va dato atto, comunque, di averci messo in guardia dal rischio di una guerra atomica, da abolire in ogni caso, e di essersi sforzato, almeno su questo punto, di far comprendere l’assoluta necessità di non arrivare mai a tanto. Questo sì, è giusto riconoscerglielo (lampante la sua condotta durante la crisi dei missili a Cuba).
Ci sono tante altre puntualizzazioni che ci verrebbe voglia di affrontare con McNamara (ma Morris ha registrato ben venti ore di videointervista, da cui ha montato i 107’ che potremo presto vedere al cinema, può darsi dunque che ci sia molto altro da acquisire e su cui riflettere), ma il parere di chi scrive è che quel “prima” della guerra farebbe la differenza (come l’avrebbe fatta Kennedy, secondo McNamara e secondo molti di noi, nello svolgimento del conflitto in Vietnam). Allora, un segretario alla Difesa ha o non ha il compito di valutare al massimo ogni minimo particolare di una situazione di crisi prima che la stessa degeneri in una guerra le cui sorti affliggeranno non solo la nazione aggredita, ma anche la propria nazione?
E’ su tutte le variabili di quel prima che sarebbe interessante riflettere. E il paragone fra la guerra in Vietnam e quella attuale in Iraq viene fin troppo facile.